C’è un vantaggio nell’apparire perdenti: guadagnare tempo e continuare la lotta, non fidarsi mai dei piccoli vantaggi, attendere che Il tempo faccia giustizia delle facili vittorie. Danilo Dolci avrebbe compiuto cento anni in questi giorni; se fosse vivo sarebbe ancora in prima linea a lottare per la difesa dei diritti essenziali dell’uomo: il diritto all’acqua, alla casa, alla sanità, all’educazione, alla difesa dell’ambiente. La libertà di parola: il diritto di dire no alle ingiustizie sociali e alle sopraffazioni; il diritto di ribellarsi pacificamente quando la legge calpesta i poveri, di diffondere la verità sui mali del mondo; il diritto di non dimenticare il costante pericolo della diffusione del fascismo e del nazismo in Europa.
Eppure Danilo Dolci è stato un perdente: processato e incarcerato più volte; dimenticato ancora oggi perché troppo scomodo ai sistemi sociali dominanti. Nei suoi libri non ebbe paura di scrivere i nomi e cognomi dei mafiosi in un periodo storico in cui veniva ancora negata la stessa esistenza della mafia. Contro Danilo Dolci si schierò sia lo Stato – con continue denunce e condanne – sia la Chiesa che lo considerò “uno dei mali peggiori della Sicilia”. Professare la solidarietà contro l’individualismo esasperato era una politica scomoda ai gruppi di potere. Lo è ancora oggi e rappresenta l’aspetto di maggior valore di un’antimafia sociale che in Italia rimane ancora minoranza.
Esaminando le storie più recenti di alcuni attivisti sociali italiani ingiustamente perseguitati dallo Stato, si scopre la ragione per cui l’Italia non è ancora riuscita a sconfiggere definitivamente il fenomeno mafioso. La mafia genera consenso tra la gente, uccide raramente e si propone come interlocutore affidabile in tutte le situazioni in cui lo Stato è assente o mostra di sé solo la dimensione repressiva. Lo Stato di diritto è invece sempre di più minacciato da una politica senza scrupoli che abbandona l’uomo al suo destino, relegandolo nella periferia del disagio e dell’ingiustizia sociale.
Chi si muove nel territorio dell’attivismo sociale è condannato alla solitudine e la storia di Danilo Dolci dimostra che si tratta di una solitudine senza via di uscita ma che non condanna alla rassegnazione e al fallimento.
“Non possiamo mai pensare di aver vinto”, ricorda Danilo Dolci nelle sue poesie. Dobbiamo essere come i “limoni lunari”, avere la capacità di fiorire in tutte le stagioni, non riposare mai. Si tratta di fare la sola rivoluzione possibile di fronte alle ingiustizie e alle sopraffazioni.
Rivoluzione, dice il Gandhi italiano, non significa “tirare una sassata in testa a uno sbirro” ma sapere distinguere il buono già vivente, sapere incontrare gli altri e “curare il curabile”. Solo così “i dispersi atomi umani diventano nuovi organismi e lottano, nettando via ogni marcio, ogni mafia”.