In Messico fare giornalismo significa incontrare la morte o la persecuzione. Dal 2000 ad oggi sono stati uccisi 167 giornalisti, l’ultimo lo scorso 4 agosto a Celaya, nello Stato di Guanajuato.
Il giornalista Alejandro Martinez Noguez, godeva del sistema di protezione federale ed era già scampato ad un precendente attentato.
Difficile che una scorta di polizia possa garantire una protezione sicura in un paese in cui le bande criminali usano equipaggiamenti militari di ultima generazione.
In questi ultimi mesi, a Celaya, le bande criminali hanno assassinato 22 agenti di polizia, con dimostrazioni di forza che hanno disorientato il sistema pubblico di sicurezza.
Chi fa giornalismo in questa realtà deve difendersi da due grandi nemici: le bande criminali e i funzionari pubblici corrotti.
Qualche anno fa è stata scoperta una vasta rete di intercettazioni illegali usate da alcune istituzioni statali per controllare cronisti e difensori dei diritti umani.
I giornalisti d’inchiesta hanno messo in luce le numerose collusioni fra crimine organizzato e apparati istituzionali o militari e, per questo, hanno subito le loro reazioni.
Un caso che sta suscitando scalpore è quello relativo all’indagine sul massacro di San Fernando, nello Stato di Tamaulipas, dove 72 migranti di varie nazionalità sono stati torturati e uccisi con un colpo di pistola alla nuca.
L’avvocatessa Ana Lorena Delgadillo Pérez, la giornalista Marcela Turati Muñoz e l’antropologa forense Mercedes Doretti, autrici dell’inchiesta, sono state oggetto di indagini improprie e di spionaggio da parte dello Stato messicano per presunti reati di criminalità organizzata e sequestro di persona.
Sebbene le indagini e lo spionaggio risalgano al 2016, sembra che ancora oggi siano in sospeso. É un modo per lasciare le tre attiviste umanitarie sotto la minaccia costante di azioni giudiziarie nei loro confronti.
Si cade così nellla dicotomia società civile/Stato così chiaramente spiegata da Norberto Bobbio. Le domande della società civile, spesso, non aumentano affatto la capacità delle istituzioni di rispondervi.
Al contrario, generano un corto circuito all’interno della stessa società e costringono lo Stato a porre dei limiti – aggiungo – non sempre leciti, non sempre accettabili.